IL SAXOFONO ITALIANO

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di Sciarrino, Salvatore

Diverbio fra mottetti, con due sogni

Coro Q - 2015 - 20' - Rai Com Edizioni Musicali - RTC 4797

Dettagli opera

Per coro misto da camera (con soli) e quartetto di saxofoni su testi di Leopardi, venditori ambulanti, Emily Dickinson, Salvatore Sciarrino.
Prima esecuzione assoluta tenutasi ad Anversa, presso la St. Paulus Kerk Laus Poliphoniae, il 30.8.2015, da parte del Blindman ensemble e il Collegium Vocale Gent diretti da James Wood.


Commento all'opera

«Testi
• N. 1 - G. Leopardi: Ad Arimane
Re delle cose, autor del mondo, arcana
Malvagità, sommo potere e somma
Dator de' mali e reggitor del moto,
Io non so se tu ami le lodi o le bestemmie ec.
Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire.
produzione e distruzione ec. per uccider
partorisce ec. sistema del mondo, tutto
patimen.
Ma l'opra tua rimane, perché p. natura
dell'uomo sempre la fortuna sarà nemica
al valore, e il merito non sarà buono a
farsi largo, e il giusto e il debole sarà
oppresso ec. ec.
Animali destinati in cibo. Serpente Boa.
Nume pietoso ecc.
Perché, dio del male, hai tu posto nella vita
qualche apparenza di piacere?
Pianto da me certo tu non avrai: ben mille
volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà ec.
Se mai grazia fu chiesta ad Arimane ec. concedimi
ch'io non passi il 7° lustro. Non ti chiedo
nessuno di quelli che il mondo chiama
beni: ti chiedo quello ch'è creduto il massimo de'
mali, la morte. Non posso, non posso più della vita.
(appunto, Firenze 1833. Adattamento di S. Sciarrino)
• N. 2 - Diverbio sul treno
1. acqua acqua birra
acqua acqua fanta
acqua birra e coca acqua?
acqua birra e coca fanta?
acqua coca birra acqua?
mo' menne vado c'aggia vist'a te monnezza
chiagnichià chiagnichià
2. bibita fresca
panino al salame acqua coca
acqua birra e coca
coca acqua
fanta bibita fresca
acqua birra acqua coca
acqua panini acqua acqua
(fra venditori abusivi, Roma, verso il 2010)
• N. 3 - E. Dickinson: 695.
As if the Sea should part
And show a further Sea –
And that – a further – and the Three
But a presumption be –
Of Periods of Seas –
Unvisited of Shores –
Themselves the Verge of Seas to be –
Eternity – is Those –
(Come se il Mare aprendosi
Mostrasse un altro Mare
E quello – un altro – e i Tre
Presagio appena -
Di Cicli di Mari -
Ignari di Rive -
Essi stessi l'Orlo di Mari a venire -
Eternità – è Quelli -)
(verso il 1863. Traduzione di S. Sciarrino)
• N. 4 - Due Sogni
1. Il sogno del Cavaliere
Raffaello appena desto
raccontò il sogno ai pennelli
prima che arrivasse Pintoricchio
l'allegoria si era persa nel mattino
- chi potrebbe immaginare
un profumo degno della camelia?
2. Sogno Pitagora
"Ma tu questo del mondo ricorda
una cosa vale e una
non vale niente".
Apre le mani a me Pitagora
mostra una foglia
perfetta ed una informe.

• NOTA DI PROGRAMMA
• N. 1 - G. Leopardi: Ad Arimane
Coloro che sviluppano un'attività dell'intelletto (o una spiritualità forte) tendono a trascurare il proprio corpo. Noi uomini non siamo capaci di reale moderazione, piuttosto pratichiamo schemi di compromesso spacciandoli per equilibrio. Tantomeno siamo abituati a conciliare gli opposti: naturale che, spinte dalle inclinazioni, le nostre facoltà si sbilancino continuamente.
Ragazzino ero spesso oggetto di rimproveri perché mai lasciavo il mio tavolo. A dire il vero ne occupavo più d'uno, perso com'ero fra dilettanti nuvole d'arte e di scienze, vivevo dietro sogni non dischiusi. Eppure mi stavo addestrando ad un lavoro instancabile, esercitavo la disciplina della conoscenza come bene inesauribile, che conduce alla scoperta del mondo; tale disciplina doveva attendere migliori risultati. Davvero impossibile scindere corpo e anima, ragione, passione. Per esempio, come calcolare la quantità di occhiali che i miei deboli occhi sono riusciti a sciupare, mentre la vista tutt'ora resiste?
Si profilano distanze incolmabili fra il buon senso comune e la vocazione di alcuni ostinati, che i più considerano pazzi. Senza azzardare paragoni inopportuni, chi è scrittore conduce per forza una vita isolata e sedentaria. All'inizio non mi sono curato della mia povera schiena, perciò essa si incarica regolarmente di rammentare Leopardi, la cui esistenza venne devastata fin dall'infanzia, per costituzione ed eccesso di studio: egli rappresenta il caso forse più estremo della storia – come potrebbe il suo esempio ammutolire dentro di noi?
Alcuni dei miei progetti attendono anni durante questa felice maturazione che ora li bacia a turno con uno stile nuovo – quasi le opere bruciassero adesso in una più netta virtualità drammatica e vocale, prima non raggiungibile. In effetti le opere nascono già in un pianeta concepito, attraverso anni, appositamente per loro. L'evoluzione artistica rimane comunque misteriosa a me stesso, sebbene ritenga essere io a gestirla.
Le idee del recente repertorio son frutto di graduale preparazione, svolta in periodi la cui memoria si è nascosta giù in biblioteca. Così è accaduto per questo scomodo appunto di Leopardi, rinvenuto decenni addietro ai limiti della sua opera colossale, in un angolo silenzioso tanto da destare in me il sospetto provocatore di una censura o di imbarazzo da parte dell'ambiente letterario ufficiale.
Non possiedo una cultura vasta o minuziosa, però son curioso anticonformista e sistematico; rifiuto di musicare versi troppo noti, che equivalgono a slogan per turisti; lo feci una volta su Hölderlin, e la colpa da neofita ancora me ne perseguita. Preferisco cimentarmi nel trasfigurare; credo che ciò possa definire uno fra i compiti principali dell'artista. Non lo strano m'attira bensì le illuminazioni rare, i capovolgimenti di significato.
Tornando a Leopardi, il nome Arimane è orientale, un demone avestico. Non incute spavento, peggio: quel che egli chiama Dio del male è il meccanismo distruttivo che autofagocita la vita, la fine su cui naufraga la nascita continua degli esseri. Leopardi coglie il dolore universale e tuttavia non gli soccombe; lui così provato, contrappone al dolore la sua sensibile generosa attività di creatore e di studioso; una stupenda risposta, che sembra dire: "Eppure vado avanti". Risposta d'amore.
Leopardi è pieno di slanci ideali che lo sintonizzano con gli inermi; sono dunque ideali di solidarietà, di civiltà. Anche di eternità (prospettiva non individuale del tempo, che proietta il finito fuori di sé). La febbre di conoscenza e l'ispirazione dell'arte son così radicati in lui, da rivelarsi di gran lunga superiori all'istinto di conservazione: di fatto egli ha sacrificato se stesso per gli altri.
Se riflettiamo con onestà, Leopardi smentisce ampiamente la fama di pessimista con cui hanno vestito la sua giovane gobba; di esistenzialismo semmai dovremmo parlare. Infatti, notare le miserabili aberrazioni, stupide, in cui cade l'umanità, vuol dire aver ben presente come essa potrebbe divenir migliore. E immaginare un mondo migliore significa cominciare già ad edificare la propria dignità di uomo.
Il ricordo produce la nostalgia di cui si cibano i poeti. Però Leopardi affina una sua speciale proiezione della mente: la lontananza pura, malinconia senza oggetto di malinconia. Così inventa all'estetica, al sorgente pensiero moderno, cose che non esistevano, che non abbiamo ancora vissuto e guideranno generazioni di uomini futuri.
Ad Arimane Giacomo chiede di morire entro il 7° lustro. Impressionante con quale lucidità sia cosciente del proprio stato fisico, se consideriamo che sul serio egli morrà prima di 40 anni. Difficile respingere il dubbio che possa essersi suicidato, da solo o con tacita complicità. Certo il poeta non sdegnerebbe di condividere l'opinione di chi oggi sostiene l'eutanasia.
Nei fogli leopardini, sterminate praterie, fioriscono precoci tutti gli argomenti problematici dell'ecologia attuale. L'appunto Ad Arimane tocca pochi temi di questi. Particolare è l'accenno sugli animali, allevati allo scopo di venir uccisi; una parabola che, sprezzante, tiene sul fondo la sorte umana. Più ancora colpisce l'espressione intima, quasi un sospiro, col quale il testo ci congeda: non poesia ma confessione, documento biografico. Apposta ne ho mantenuto, nel metterlo in musica, abbreviazioni ed eccetera, con funzione straniante.
• N. 2 - Diverbio sul treno
Non v'è attività che Internet non abbia svuotato di senso umano, cancellando fra tutti noi i rapporti personali, insieme alle dimensioni dello spazio e del tempo: in realtà abbiamo imboccato scorciatoie letali poiché quelle dimensioni sono necessarie, imprescindibili a qualsiasi essere vivente.
Non che provi nostalgia di quanto per sempre si va smarrendo, infatti la vita è trasformazione in sé e nulla può durare più del suo tempo. Detesto però l'obbligo del falso moderno che ci vuole livellare, e sottrae l'emozione al piacere creativo. Le apparenti libertà attuali nascondono le invincibili mascelle di una burocrazia assassina.
Mi chiederei invece, a fianco alle (ex) nuove tecnologie, come potremmo ricostituire le funzioni base della società. Verso l'annientamento del pianeta, la perdita della memoria toglie ogni possibile identità e sopravvivenza all'uomo futuro: in scala di massa, molto peggio dell'Alzheimer.
Una volta, ogni attività passava attraverso ciò che l'uomo possiede di più intimo, la voce. Così chi usciva a vendere, modulava per strade e piazze toni e parole, affinchè a distanza chiunque venisse affascinato, non solo i compratori: si entrava nel campo dell'espressione emotiva. Mi chiedo se ancor'oggi nell'Europa del Sud qualcosa di ciò dovesse sopravvivere. In Sicilia, dove io son nato, i richiami degli ambulanti si chiamano abbanniate, cioè "bandi".
Mia madre raccontava di sentire, nell'oscurità avanti l'alba, i contadini giungere dalla campagna con le primizie; proverbiali erano i venditori di bacche di gelso: "A st'ura v'arrifriscanu" (cioè: "A quest'ora vi rinfrescano"). Era tale un annuncio azzeccato ma surreale, quasi che all'ora più fresca i gelsi appena colti potessero rinfrescare di più.
Ho avuto modo io stesso di stupire, in anni lontani (1991), all'ascolto di occasionali fruttivendoli su piccoli sgangherati mezzi di trasporto. Le vie di Gibellina, anonime e spaccate dal sole, echeggiavano all'improvviso di lunghe messe in voce, filigranate come i gigli delle spiagge, o come preziosi canti arabi, ancora mai sentiti. Quanto improvvisassero però non saprei.
I nostri due ambulanti napoletani fanno il contrario: declamano in modo teso e sbrigativo, pronti a tacere e a scappare. In Italia è proibito a privati di vendere nelle stazioni; le ferrovie aizzano i viaggiatori a non comprare, e a denunziare alla polizia chi propone merci, forse rubate.
Fa caldo. Sul treno in partenza, sale un venditore ambulante. Ne spunta un altro. Il primo avrebbe preferito non incontrarlo, perché l'altro, pure abusivo, si trova su un vagone di propria "competenza". Le spartizioni fra bande rivali sono rigorose e il concetto stesso di territorio, a questo stadio, richiama l'essenza primitiva della criminalità.
La sceneggiata è piena di sottintesi. I due non dialogano quindi le parti vocali non si sovrappongono ma vengono moltiplicate dalla musica in una sorta di antifona tribale fantasma (coro di ambulanti o coro di compratori?). Il primo venditore si sente minacciato, perciò ostenta disprezzo e quasi tragicamente se ne adorna. Ormai vuole dar spettacolo e lancia una formula iettatoria che in italiano, alla lettera, suonerebbe: "Piangipià, piangipià". Gli ho riservato qui un'espansione vocale patetica e un po' buffa.
Il secondo ambulante non reagisce affatto; appena che l'intruso è filato via, comincia a offrire la sua merce. Fra di loro può esservi stato un precedente, magari si sono evitati tutta la vita, per poi ritrovarsi nello stretto corridoio di una carrozza ferroviaria.
Li vedi comparire solo durante le ore più calde, a offrire immediato refrigerio quando il treno è in partenza. Con identica sveltezza, scompaiono.
• N. 3 - E. Dickinson, 695.
Emily Dickinson è più di una semplice antenata veggente. Questa poesia fu composta intorno al 1863.
Malgrado aggredisca direttamente il più ineffabile dei temi, l'ineffabile in sé, la poetessa riesce dove gli altri non osano o balbettano.
Insieme con lei penetriamo nelle teorie che gli scienziati formuleranno molti anni più tardi, scopriamo un universo a strati che può essere sfogliato come una cipolla.
L'interferenza fra le immagini, anzi fra l'immagine e sé stessa, taglia il flusso verbale. Dentro vi sono solo onde, a perdita d'occhio. Dunque la forma a finestre è dominata con assoluta sicurezza, degna dei pronipoti di Einstein.
Possibile, direte, che nel secolo XIX un essere segregato e dimesso, che spargeva di versi i foglietti della spesa? Possibile. Forse il dono formidabile di una visionaria, cresciuta a contatto degli oggetti casalinghi? Chissà. Da dove ci viene la diffusa fascinazione di vedere ciò che occhio non può vedere, di sentire ciò che orecchio non può sentire? Di proiettarsi in spazi estremi e fuori dal tempo?
Davvero la Dickinson spalancava le immagini poetiche come spalancava le porte e le finestre di casa, concettualmente proiettata nei nostri secoli.
Questo secondo "mottetto" è basato su articolazioni contrapposte di musica e di lingua. In principio una Rota a 2 cantata in lingua originale s'incentra sulle voci maschili (alcuni elementi però vengono proiettati nell'acuto); d'improvviso si aprono dimensioni in continuo slittamento: vi compaiono schegge del canone iniziale come gridi d'uccelli marini, mentre tutta la sezione dissolve in fonemi cangianti la traduzione italiana del testo.
• N. 4 - Due Sogni
La presunzione ci lascia credere di essere del tutto autonomi, mentre siamo intanto colonia del nostri antenati. Da loro discende l'intelligenza profonda che regola il nostro corpo, a cui non comandiamo perchè sa già come funzionare. Pensiamo anche soltanto alle sensibilità di cui siamo dotati, sebbene non tutti ne abbiamo coscienza: chi sa ascoltarsi, per esempio, può avvertire ogni perturbazione atmosferica prima che essa giunga.
L'uomo è un incrocio di molte dimensioni.
Persino l'immaginario della fantascienza attuale non è nuovo, ed estende le sue radici nel mondo dei miti. Pensiamo alle disavventure di un'anima gnostica, sbattuta fra corpi siderali, spaventata da essenze ignee, demoni, eoni. Pensiamo a quell'altrove, fuori dal presente umano, da cui gli Dei di ogni credenza spazzano l'orizzonte passato/futuro, come può fare uno sguardo dalla cima dei monti a loro sacri, per noi inabitabili. Oracoli e sibille facevano da tramite; ma affinchè segnali e immagini passassero dal regno incognito al nostro, dovevano trovare dei passaggi, le porte dei sogni, appunto.
I primi Dei della Grecia conoscevano bene anfratti e gallerie del sottosuolo. Cielo e Terra erano infatti Dei-Serpenti. Accoppiandosi generarono Tempo. Questi recise i genitali al padre e li lanciò. In aria, nello spazio, nel tempo? No, essi precipitarono dritti nel mare, lo fecondarono. Dallo spruzzo nacque Venere: non la libidine, bensì Venere Celeste, figlia del Cielo, amore universale.
Allora non era l'uomo a percepire il reale. Dovremmo ricordare Epicuro: erano le percezioni che arrivavano a noi, come esistessimo isolati, fuori da ogni contatto. L'idea che il nostro corpo produca i sogni è davvero recente. Anticamente si credeva che fossero mandati dall'esterno, da lontano, giungessero come le percezioni, effluvi emanati dalle cose. La porta rappresenta il punto di passaggio, dove e quando l'altra realtà compare nella nostra mente. Tutto passa da un non essere all'essere, e la soglia è il momento in cui acquistiamo coscienza: così nasce un'idea, un ricordo, noi stessi, il mondo.
Ciascuno considera sempre il sogno come qualcosa di estraneo, un intruso. Quasi mai ci identifichiamo nella sua stranezza. Ciò nonostante, i desideri vengono covati a lungo finchè non li abbiamo trasformati in immagine, come i sogni.
Durante un periodo fra l'altro non facile della mia vita, ho potuto comprare una casa. Nel ristrutturarla, poiché era necessario, si dovevano risolvere alcune scelte drastiche che io immancabilmente ponevo su un livello simbolico di lettura. Volevo raddoppiare la comunicazione fra lo studio e la stanza di musica, non più una porta a sfuggire lungo il muro, bensì due passaggi rettangolari che io chiamavo porte dei sogni: una per i sogni veri, una per quelli che mentono. Non ho mai saputo a quale attribuire un potere o l'altro.
Il problema che si poneva era interessante: le due stanze contigue non erano lunghe uguali, e dunque la parete comune non avrebbe mai potuto offrire una simmetria unica delle aperture, che valesse per entrambi gli ambienti. Bisognava inventare proporzioni empiriche. Mi ricavai una pianta su cui costruii l'alzato completo di finestre e cominciai a giocare attorno al modellino di carta, con una lampada. Riproducevo più o meno il percorso apparente del sole a varie inclinazioni, secondo le stagioni. Lo studio ha una sola finestra ad arco, piuttosto alta, rivolta ad est; ma la stanza di musica si apre a ben quattro finestre, due ad est, due a sud. Cercavo di illuminare gli interni in modo da trafiggere più stanze in fila e l'intera casa, da una parte all'altra. Furono questi esperimenti a suggerire una posizione centrale che non desse squilibri vista da ciascuna delle due stanze. L'imprevisto venne poi in aiuto: dentro il muro si trovò una cappa di camino che obbligava a distanziare maggiormente le porte, e la modifi ca raggiunse la perfezione.
Son passati da allora più di trent'anni e molte volte al giorno nel varcare quelle soglie mi chiedo attraverso quale passino i sogni veri, cioè quelli che predicono il futuro.
Fin da piccolo mi han visitato sogni carichi di simboli che annotavo e talvolta ho incluso nei miei scritti.
Il testo su Raffaello (Il Sogno del Cavaliere viene chiamata la giovanile tavoletta) è una sorta di fantasticheria, sogno ad occhi aperti, o, meglio, costruito fra più tratti di sonno. Credo capiti a molti, la notte, di leggere fra le righe stampate qualche frase che dopo ci si ostina a cercare, ma non c'è. La musica, il testo terminano a sorpresa, quasi una risposta sentenziosa fra sentieri sensibili.
Il sogno di Pitagora è semplice fra quelli mitici, appena sveglio l'ho trascritto e datato; il fogliettino giallo è rimasto a sbiadire, attaccato al muro privo di qualsiasi indicazione d'anno. Percepivo un'atmosfera di grande eccitazione intellettuale, e le parole si imprimevano nella mente. Come tutte le frasi oracolari, questa dice molto e nulla. L'aspetto di Pitagora era quello di un asceta rigoroso anziché da filosofo raffinato, e in effetti porgeva due foglie, figure frattali. Mentre parlava, capivo che per cosa dovevo intendere misura. Fin dai primi anni di insegnamento ho preso l'abitudine di iniziare con la divisione pitagorica di una corda, per legare la geometria alla composizione del suono.» Salvatore Sciarrino (su http://www.salvatoresciarrino.eu/)


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