IL SAXOFONO ITALIANO

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Galigani Alfio

  1. Nato il 01/10/1924 a Perugia
  2. Morto il 07/07/2010 a Roma

Note biografiche

Per il rilievo che il M° Galigani ha, quale uno dei ‘padri storici’ dell’insegnamento del saxofono nei conservatori Italiani (Perugia 1975/81), ho il piacere di riportare informazioni (benché prettamente jazzistica sia stata la sua attività) tratte da interviste varie e mediate da miei approfondimenti.

 

La formazione

Clarinettista, saxofonista e flautista, iniziati gli studi nel 1933 presso l'allora Liceo Musicale “Francesco Morlacchi” di Perugia (oggi Conservatorio), conseguirà successivamente il diploma di Clarinetto presso il Conservatorio di musica di Cosenza e quello di Saxofono al Conservatorio di musica di Bologna (plausibilmente quando Eraclio Sallustio fu li docente negli anni dal 1969 al 1978).

 

L’attivita’

Inizia l'attività concertistica all'età di 16 anni in un'orchestra di musica leggera, dal 1946 collabora in varie orchestre e gruppi dell'ambito classico, jazz e della musica leggera (sax tenore solista nell’Orchestra di Radio Roma '46, con M. Chevalier in Francia '48, sax contralto solista nei Quintetti jazz di U. Cesari '53 e Stephane Grappelly '54, sax tenore dell’Orchestra RAI-TV '58 e con l’Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma '65, sax baritono nell’Orchestra del Centro RAI TV '66/'78, nell’Orchestra di S.Cecilia per concerti di L. Berio '70, sax contralto nel Gruppo di Musica Contemporanea di "Nuova Consonanza" '71, leader della Perugia Big Band '74/'79 – organico costituito inizialmente da ‘amatori’ del jazz che, dopo un fine lavoro di preparazione di Galugani, Thad Jones, capo orchestra e trombettista di fama mondiale li omaggiò di un ricordo scritto, sul piacere di averli ascoltati prima della sua esibizione a Todi, per Umbria Jazz 1974. Suonarono pure, nello stesso ambito, col grandissimo Tony Scott, che per vari anni era stato votato dalla più importante rivista di jazz americana come miglior clarinettista di jazz nel mondo. Seguirono anni di concerti, in media venti e più a stagione, dentro e fuori regione, cosa che nessun organico analogo in Italia riusciva a fare, nonostante nomi blasonati, e anche tournée in Romania, Germania, Cecoslovacchia. Pure Canale 5 e RAI 1 ospitarono le loro esibizioni.). Nel 1981 gli è stato conferito il Premio Internazionale "San Valentino d'oro" in qualità di jazzista.

Quando lo storico Quartetto di saxofoni italiano era ormai nella fase di scioglimento Alfio ne fu anche componente per un breve periodo.

 

L’insegnamento

Iniziato l'insegnamento del clarinetto nel 1974 presso il Conservatorio di musica di Perugia, nello stesso Conservatorio di musica, l'anno successivo, 1975/76, gli verrà affidata la Cattedra di saxofono che manterrà fino al 1981, anno del suo pensionamento.


Altre note

Pot-pourri di autonarrazione/interviste/ricordi con aggiustmenti ‘puntualizzatori’.

(Fonti che ringrazio: jazzitalia.net, perugiamusica.com, studiumbri.it, Roberto Todini, e decine di stralci di riviste varie e altrettanti quotidiani)

 

Alfio Galigani, saxofonista, clarinettista, flautista, tutta la sua vita per la musica, per il jazz. La sua vita, il jazz suonato nei night, la sua musica da ascoltare suonata in vari ensemble anche se, come lui stesso oggi dice, si rammarica di non possedere alcuna registrazione dei suoi concerti più memorabili.

 

Chi è Alfio Galigani

Io sono Alfio Galigani che insieme a Umberto Cesari, Riccardo Laudenzi, Pepito Pignatelli e la bella e brava Lilian Terry, abbiamo tenuto un memorabile concerto al Conservatorio di Perugia il 30 maggio 1953...

Il 1° ottobre ho compiuto 77 anni e tutte le domeniche suono con un mio amico pianista il mio amato Be-bop e anche lo swing (tanto per non perdere l'abitudine) e spero di poter continuare ancora per un pezzo.

Io non potrei vivere senza suonare, no, non potrei proprio.

 

Per quel che mi riguarda, la musica oltre ad essere stata la mia unica e grande passione è stata anche la mia professione.

Un musicista che vuol raccontare, anche a grandi linee la sua vita musicale, viene sommerso da tanti ricordi che, sovrapponendosi gli uni agli altri gli creano una seria difficoltà di scelta perchè non solo i grandi e più importanti avvenimenti, ma anche un'infinità di medi e piccoli episodi segnano il senso profondo del proprio divenire.

 

Sono nato a Perugia nel 1924 e a nove anni ho cominciato a studiare musica nell'allora Liceo Musicale Comunale, ornai da tanti anni Conservatorio Statale. Ma già il virus del Jazz mi era entrato nel sangue. Andavo al cinema nascondendomi sotto le mantelle dei soldati. Non mi perdevo un film specialmente se era musicale. Così ho visto e ascoltato la musica di tanti film americani con tante grandi orchestre, tante ballerine su enormi scenari luccicanti: Zigfield Follies, Follie di Broadway e tanti altri. Quella musica la sentivo come mia.

 

Le canzoni le imparavo subito e tornato a casa le cantavo in una lingua inesistente, ma che per me doveva essere "americana".

Quando ho cominciato a studiare il clarinetto dopo una mezz'ora di esercizi scolastici cominciavo a suonare i pezzi che avevo imparato dai film. Lo spartito non mi serviva, tutto era dentro la mia testa.

Lo swing non mi mancava, ma come cominciavo ad improvvisare, questa non poteva non essere molto approssimativa. Avevo 12/13 anni; non potevo fare meglio, ma mi rendevo già conto di ciò di cui avevo bisogno.

Poi è venuta la guerra. Film americani non se ne sono visti più. Il Jazz venne proibito e in questa lunga parentesi perfezionai l'aspetto tecnico, melodico - armonico e strutturale del jazz ascoltando pochi dischi che ero riuscito a rimediare.

Finita la guerra esplode nei giovani il bisogno ai divertirsi e il ballo con il boogie-woogie, il charleston e lo swing entusiasmava il pubblico.

 

lo ho cominciato a suonare e guadagnare con l'orchestra di C.A. Belloni, bravo pianista e bravo improvvisatore.

Ma cominciai a sognare altri lidi e nell'estate del 1949 sono andato a Cannes dove ho trovato un ingaggio al Maxim. Poi Astone, l'autore del grande successo francese Symphonie mi ha portato con l'orchestra di Maurice Chevalier, un septetto di Parigi a cui mancava il saxofonista. Questa è stata la mia prima stupenda e gratificante esperienza professionale. Poi la nostalgia mi ha fatto ritornare a Perugia.

 

Ho fatto un mio quintetto denominato Hot Gatto Nero, che alternava jazz a musica da ballo (quell'Hot dice chiaramente l'impostazione musicale del gruppo) di cui faranno parte i migliori musicisti umbri: Sandro Poccioli, Sergio Pierucci, Riccardo Laudenzi, ecc., poi nel 1956 vengo chiamato da Garinei e Giovannini per far parte come I° saxofono contralto e clarinetto dell'orchestra della grande rivista di Carlo Dapporto per due anni di seguito. Qui tra gli aggiunti al teatro Sistina di Roma ho conosciuto il saxofonista Gino Marinacci che allo scioglimento della compagnia mi ha portato in RAI con l'orchestra di Armando Trovajoli. I miei sogni sono cominciati ad avverarsi. Dopo Trovajoli si sono succeduti tutti i maestri, dal più grande al più piccolo. Sono divenuto socio della U.M.R. (Unione Musicisti Romani) per le esecuzioni di musiche da film, concerti e dischi. In tanti anni di attività ho suonato tutto e con tutti sotto la direzione di maestri come Leonard Bernstein, Dimitri Tiomkin, Michel Legrand, Perez Prado, e tutti gli italiani.

 

Molto importante la partecipazione come sax tenore solista al teatro dell'Opera nel Balletto "Romeo e Giulietta". Nella mia partitura c'era scritto a penna "Play in New York - Sonny Rollins" e una data. Ho suonato la stessa partitura che aveva suonato Sonny Rollins a New York!

I due ballerini erano Rudolf Nurejev e Margot Fontaine. Ma se pur la professione a questo livello paga, non concede però molto spazio alle attività che appagano di più lo spirito del musicista di jazz. Ciò non mi ha impedito la tournée più appagante jazzisticamente, insieme a quella con Stephane Grappelli, con il grande Lionel Hampton nell'estate del 1968 «a Villa Igea di Palermo, un'orgia di jazz tutte le sere per circa tre mesi» con un'orchestra formata dai migliori jazzisti professionisti di Roma. Furono

una ventina di concerti, anche in Svizzera, in cui sono stato l'unico dell'orchestra che Lionel voleva fuori dal mio posto e accanto a sé alternandoci negli assoli con clarinetto-vibrarono o clarinetto-batteria anche nelle scorribande che insieme facevamo tra i tavoli o le poltrone degli spettatori.

 

Dopo l’appartenenza al Quartetto Italiano di Sassofoni, fra gli anni ’60 e ’70, negli anni 1970 e 1971 sarà concentrato il suo impegno nell’ambito più prettamente  ‘classico’: nel 1970 per i concerti al “S. Cecilia” con musiche di Luciano Berio dirette dall’autore e nel 1971 come saxofono contralto nell’Orchestra di Musica Contemporanea di “Nuova Consonanza”.

 

Infine ho finito la mia carriera come insegnante di ruolo per la cattedra di saxofono al Conservatorio di Musica "F. Morlacchi" di Perugia dal 1974 al 1981. Durante questo periodo ho diretto la "Perugia Big Band" (Miro Graziani era stato il primo direttore) portando questa orchestra di dilettanti ad un livello semiprofessionale ed a farla partecipare a Umbria Jazz 1974 (Perugia e Todi).

 

Negli ultimi due anni ho costituito un'orchestra composta da allievi del Conservatorio e denominata Orchestra della Charlie Parker Jazz School dove a 16 ragazzi insegnavo il linguaggio jazzistico con le sue pronunce e attacchi, l'essenza dello swing alla Count Basie.

Tutto bene fin quando una improvvisa sordità neurosensoriale di origine traumatica (i tanti anni a suonare in RA1 con le cuffie) ha messo la parola fine alla mia lunga carriera.

È una sordità bilaterale percettiva, non percepisco più i suoni nella loro precisa intonazione e questo dal 24 giugno 1982. Gli apparecchi acustici mi rendono il volume ma non la percezione e tutto questo grazie alle registrazioni con le cuffie, sezione per sezione e per tanti anni in RAI.

Avevo preparato il mio studio tutto insonorizzato con delle lampade colorate per godermi i miei 400 e passa dischi di jazz in santa pace nella vecchiaia e invece tutto finito. Tutto avrei pensato meno che un giorno sarei divenuto sordo. Ho pianto tanto... poi...

 

Ma posso ancora suonare e suono. Tu sai benissimo che il musicista di jazz quello che ha da dire lo ha dentro la sua testa e così o con il sax, o con il clarinetto o con il piano, non passa giorno che non mi faccio i miei chorus preferiti, che poi sono tantissimi. E la domenica, forza con il Bop.

 

Il Jazz nei Night Club

Anche io ho suonato per diversi anni nei Night Club e quindi so cosa si suonava e perché.

Il periodo romantico, il melodramma, il canto popolare, l'elemento folkloristico, in una parola: le nostre tradizioni musicali, erano assai lontane dal linguaggio di questa nuova musica che negli anni ’20 cominciava ad affacciarsi in Europa e con un po' di ritardo, anche in Italia. Cominciarono a circolare i dischi del primo jazz: New Orleans e Dixieland. Erano pochi perché pochi erano gli interessati a tale musica e pochi i luoghi dove poterli acquistare. Ma il seme era gettato, grazie anche a grandi e fantasiosi film-musical americani.

 

La musica da ballo cambiò ben presto il suo volto. Molte canzoni si ispirarono a questo nuovo linguaggio e al suo ritmo "swing" fondamentale. Avevo all'incirca 10 anni e ricordo l'orchestra di Egidio Storaci alla radio nei primi anni ‘30. Suonava pezzi pieni di swing: Signorina Grandi Firme era uno dei miei preferiti.

Nelle sale da ballo si cominciò presto a ballare il Fox-trot e lo Slow Fox, ma il regime cominciò a vietare l'importazione e la vendita dei dischi e la visione dei film americani delle potenze Demoplutocratiche. Avvenne così che "St. Louis Blues" cambiò titolo in "Tristezze di S. Luigi", "Blue Moon" divenne "Pallida Luna" e tante altre simili amenità. Poi la guerra. Quattro anni di buio completo in cui si doveva Credere, Obbedire, Combattere. Sappiamo come è andata a finire.

 

Comunque anche in questo tipo di proibizionismo furono tanti i musicisti che furono conquistati dalla musica Jazz e che, segretamente, in casa dell'uno o dell'altro si andava ad ascoltare quei pochi e preziosi dischi che si erano potuti rimediare. Così ebbe inizio lo studio del Jazz. Swing e improvvisazione si potevano assimilare soltanto attraverso l'ascolto dei dischi dei grandi jazzisti americani. Chi si è appassionato al jazz lo è rimasto per tutta la vita e ha guardato come modello ai Maestri del Jazz americano. Insisto su questo punto per dar forza a quanto dirò più avanti.

 

L'internazionalizzazione, o meglio, l'internazionalità del jazz come arte - ha scritto Enzo Fresia sul N° 11/ novembre 1947 - va intesa così: Il musicista di Jazz può essere personale solo se riesce ad identificarsi con il linguaggio jazzistico consacrato, che non può che essere uno, quello del Nordamerica, come il linguaggio operettistico non può essere che viennese e quello melodrammatico non può essere che italiano. E ancora: la musica jazz ha una sua grammatica e, soprattutto, un suo sistema di accentuazioni e di pronunce difficilissimo da assimilare. Allo stesso modo in cui facilmente si riconosce lo straniero che parla italiano dalle indecisioni o dalle inflessioni anormali, così si può distinguere il jazzista che si esprime nel jazz come in una lingua straniera.

Questo i musicisti di Jazz lo sanno benissimo: Il Jazz è musica americana. Molti (i più fortunati) sono andati negli Stati Uniti a studiare. Alcuni sono rimasti e chi è tornato si è portato dietro un bagaglio di esperienze fondamentali. A questo punto è necessario tornare al tema: Il Jazz italiano da night.

 

È fuori discussione che se il livello delle orchestre da ballo dal dopo guerra in poi si è molto elevato, lo si deve a tanti leaders e strumentisti che hanno impiegato normalmente modi del linguaggio jazzistico servendosene con gusto per il loro repertorio tipicamente "leggero". Eccoci così al Fox-trot e allo Slow-fox.

 

Nelle sale da ballo nell'immediato dopo guerra imperava il Boogie Woogie. I giovani si scatenavano sfogando la repressione troppo a lungo trattenuta. Sembrava (ma non era così) che avessero lo spirito dello swing nel corpo in quanto i movimenti del corpo e delle gambe erano ben coordinati con questo ritmo jazzistico. Nelle orchestre già si potevano ascoltare assoli di saxofono, clarinetto, piano, ecc. Poi, poco a poco questa frenesia lasciò il posto ai ritmi più moderati e il principe del repertorio divenne lo Slow-fox. Luci soffuse e colorate favorirono il ballo della mattonella. Le orchestre più ricercate erano quelle dove c'era un improvvisatore preferibilmente di saxofono o di clarinetto. Gli assoli suadenti e sentimentali hanno fatto nascere amori e passioni. L'attività di moltissimi buoni musicisti di jazz si è svolta nelle sale da ballo in considerazione della grande partecipazione del pubblico. I jazzamatori storcevano la bocca, ma la sala da ballo è stata per moltissimi musicisti l'unica fonte di guadagno per lungo tempo.

Nacquero come funghi in tante città i Jazz Club dove i musicisti di jazz andavano volentieri per fare del jazz tra di loro e per farsi conoscere, ma il loro guadagno rimaneva la sala da ballo.

 

L'opera dei migliori jazzisti influenza tutta la musica leggera, ma l’esigenza, per ovvi motivi, era quella di cercare il favore del pubblico, il solo che poteva assicurare la continuità di un proficuo lavoro, e se questo andare incontro ai gusti del pubblico creava un certo ibridismo formale, stabiliva però un profondo e proficuo contatto con il pubblico. È vero che questa ricerca del consenso presentava anche degli aspetti negativi, ma tenuto conto della maggiore diffusione che produceva e la conseguente educazione del pubblico, questa negatività ne è stata largamente compensata.

Quindi, un jazz minore nella sala da ballo, rispetto all'opera dei grandi musicisti di jazz, ma capace di tenere viva l'attenzione e la simpatia del pubblico, mantenendo con esso un collegamento continuato nel corso dell'evoluzione jazzistica, sarà servito sicuramente a rendere ben accette opere sempre più avanzate. Del resto cosa è stata la molto discussa "Era swing" inaugurata nei lussuosi saloni dei Grand Hotels da Benny Goodman se non la ricerca del consenso e della simpatia del pubblico?

 

Stan Kenton, il profeta del "progressive jazz" intervistato dalla rivista specialistica "Metronome" negli anni ‘50, fece una dichiarazione che sorprese non pochi data la persona. Disse testualmente che la musica viene creata per il pubblico perché c'è un pubblico. I musicisti devono essere con il pubblico, denunciando la tendenza di certi artisti a staccarsi dalle masse e a rinchiudersi in torri eburnee, criticando Lennie Tristano proprio per questo atteggiamento.

lo trovo questa opinione molto discutibile. Il Jazz è una musica d'arte e un'arte che va incontro ai gusti del pubblico, cessa di essere arte per divenire artigianato commerciale. Il musicista di jazz deve suonare quello che la sua sensibilità creativa gli detta in quel momento, deve comunicare le proprie emozioni ad un pubblico esperto nel rispetto dei principi estetici del jazz che gli sono propri.

 

Cosa del tutto diversa per i jazzisti che suonavano nei night club o dancing. Essi non avevano lo stesso pubblico nei concerti jazz o alle jam-session ed era molto importante conquistare l'apprezzamento e la simpatia di questo pubblico. Tanto è vero che il solista si avvicinava al microfono per "prendere" un assolo, difficilmente lo svolgeva per tutte le 32 battute, solisticamente veniva spezzato nell'inciso dal pianista o da un altro solista proprio per non fare ascoltare al pubblico una elaborazione musicale troppo lunga e difficile da capire. Allora come vogliamo chiamare questa musica? Il Jazz italiano da Night, o come credo sia più appropriato: Il Jazz nei Night Club in Italia? Infatti non era un Jazz per il Jazz, ma un Jazz per danzare, capace, però, di tenere viva l'attenzione e la simpatia del pubblico e portarlo gradualmente ad apprezzare questo nuovo linguaggio di origine americana, anche se espresso in maniera più comprensibile e suadente. Non ho molta simpatia politica per gli americani, ma il jazz e i jazzisti lasciamoli stare. È musica loro e non nostra.

 

Oscar Valdambrini diceva: Il Jazz è musica americana e i jazzisti italiani più bravi sono quelli che, più di altri, hanno assimilato il Jazz americano.

 

Del Jazz che è stato creato dopo il 1968, quello per intenderci dai vari Cecil Taylor, Sam Rivers, Don Cherry e di quel grande campione osannatissimo Ornette Coleman e suoi discendenti, io non ne voglio parlare. La politica ha fatto diventare, specie qui in Italia, grandi jazzisti degli autentici somari. Incredibile! E bada bene.


Registrazioni

Numerose le sue registrazioni che, per lo più di ambito jazzistico, non sono note, a meno di:

[LP • Natura e Musica N.1 • Baldo Maestri/S, Alfio Galigani/A, Eraclio Sallustio/T, Antonio Russo/B, Bruno D’Amario/Ch • Grand Prix GP. 121 • 1968 • con Saxologia (Q&Ch) di Sallustio e musiche per altri strumenti di vari autori];

[LP • Gino Marinacci. Atom Flower’s • Gino Marinacci, flauti, ottavino; Dino Piana, trombone; Livio Cervellieri, Quarto Maltoni, Salvatore Genovese, Alfio Galigani, sassofoni, flauto; Antonello Vannucchi, pianoforte, tastiere; Angelo Baroncini, Enzo Grillini, chitarra; Giovanni Tommaso, Maurizio Maiorana, basso elettrico; Sergio Conti, Roberto Podio, batteria, percussioni • RRC • 1972 • con Atom Flower’s, Space, Life, Guardrail, Walking Moo, Actors Flute Studio, Sonatina In Beat, Meeting]

 


 
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Seminario - Mille modi di dire sax
Secondo concorso del Saxofono Classico
Il primo concorso del Saxofono Classico
 

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